Economia e SocietàNozioni di Economia

La storia dell’economia – parte 1: il mercantilismo e i fisiocratici

1.1   Breve introduzione concettuale.

L’economia è sempre stata una prerogativa delle classi dominanti e per millenni le idee economiche che hanno dominato il pensiero si sono fondamentalmente divise in due fazioni: quella che voleva conferire pieni poteri ai mercati privati e quella che voleva conferire pieni poteri al sovrano e allo Stato. E’ sempre stato così, fin da tempi immemori. Basti pensare agli antichi testi cinesi come “Discorsi sul sale e sul ferro” dell’81 a.C. in cui in una riunione presso il palazzo dell’imperatore cinese Han si dibatteva proprio su questo tema [1]. Ecco quelle idee non sono mai cambiate, sebbene si siano evolute nel tempo.

Le prime domande che sorgono spontanee pertanto sono:

– esiste una narrazione oggettiva della scienza economica?

– perché la necessità di due visioni distinte ancora oggi a distanza di millenni?

La risposta alla prima domanda è senza dubbio no. Infatti a differenza della matematica le teorie economiche portano sempre l’acqua al mulino di qualcuno e pertanto sono intrise di ideologia più che di distaccata oggettività. Se non si capisce questo è inutile andare avanti. Lo conoscenza della storia del pensiero economico viene prima addirittura dell’economia stessa perché se non si capiscono gli interessi sottesi al predominio di una filosofia piuttosto che un’altra non si possono comprendere le ipotesi di base dei modelli e si rischia di mischiare pezzi dell’una e pezzi dell’altra visione del mondo, giungendo alla fine ad un pastrocchio senza capo né coda. E’ proprio per questo motivo che oggi gran parte degli studenti che escono fuori dalle Università ripetono concetti a pappagallo senza interrogarsi sulla loro fondatezza.

La risposta alla seconda domanda è invece più complessa. A distanza di millenni siamo ancora qui a discutere le stesse teorie perché ogni teoria scontenta una fetta della popolazione e quando la fetta scontenta è sufficientemente influente si finisce per cambiare paradigma. Lo scopo di questi articoli dunque è far capire tutto questo per dare a chiunque si approcci allo studio dell’economia una visione completa, cosa che le moderne Università non possono dare. Lo stesso John Kenneth Galbraith scrisse che [2]:

“Non si può comprendere l’economia senza conoscere la sua storia […] le teorie economiche sono sempre e profondamente un prodotto dei tempi e dei luoghi e non si può analizzarle prescindendo dal mondo che interpretano.”

Detto questo quindi, vi auguro buon viaggio in questo lungo percorso.

1.2   Le idee che vengono da molto, molto lontano.

Come abbiamo detto, se volessimo capire ancora meglio come si sono sviluppate certe dinamiche bisognerebbe iniziare a raccontare questa storia partendo dalle civiltà che hanno dominato il pianeta millenni fa. Magari in un articolo separato potrei fare un approfondimento dedicato, ma in questo momento preferisco concentrare l’attenzione sulla storia recente. Senza quindi andare a finire all’alba dei tempi, vorrei far partire la narrazione di questa storia dalla fine del Medioevo.

A quel tempo non si parla di economia in termini scientifici, anzi. Di base l’economia è qualcosa concettualmente abbastanza vago e confuso, lasciato molto al dibattito “filosofico”. L’economia a quel tempo è quindi una disciplina completamente umanistica e non a caso i suoi maggiori esponenti sono prevalentemente filosofi e mercanti. Lasciare ai mercanti il tempo di filosofeggiare su aspetti “di sistema” che non gli competono ha prodotto purtroppo un consolidamento ideologico nel corso dei secoli.

Con la scoperta dell’America e la formazione dei grandi imperi coloniali, l’economia del tempo finisce per essere dominata quindi da un’unica filosofia economica: quella mercantilista. Il mercantilismo non segue un approccio scientifico ma è più che altro un collage di idee fondate su superstizioni e credenze figlie dell’ignoranza diffusa.

Vi sembrerà pazzesco, ma le idee che vanno per la maggiore oggi affondano le loro radici in quest’epoca. Se unite questa frase a quella precedente, cioè che queste idee fondano su superstizioni e credenze figlie dell’ignoranza dell’epoca, avete già capito dove voglio arrivare. In un’epoca come la nostra, che si suppone essere un’era decisamente più colta di quella medievale, è inaccettabile che si ragioni ancora sulla base di concetti smentiti e superati da secoli. Eppure le cose sembrerebbero andare proprio in quella direzione.

Moltissimi mercanti e filosofi sono coinvolti nel dibattito economico ma le basi dell’ideologia mercantilista vengono messe da personaggi come Jean Baptiste ColbertWilliam Petty, John Law e Thomas Mun. Prima di entrare nel vivo del contributo dei singoli, voglio però spiegare in cosa consiste l’ideologia mercantilista.

Il nodo cardine del pensiero mercantilista è che la potenza degli Stati poggia sul possesso di un potente esercito ma soprattutto della maggior quantità d’oro possibile. Questa assunzione, detta bullionismo, è alla base i tutti i concetti successivi perché da le indicazioni su cosa può e non può fare un sovrano. Infatti uno Stato mercantilista per aumentare la propria ricchezza deve per forza sottrarre metalli preziosi ad altri Stati e può farlo in due modi: o ricorrendo all’import/export (commerciando in oro, esportare più di quanto si importi fa affluire più oro nel paese) oppure con la forza (cioè invadendo militarmente un altro paese per sottrargli l’oro). E’ un modello predatorio che mira a sottrarre risorse e benessere agli altri Stati per migliorare il proprio e penso che siano chiari i motivi di tantissime guerre di quel tempo.

Più nel dettaglio, i punti difesi dalla filosofia mercantilista sono:

Bilancia commerciale in attivo: siccome le merci vengono pagate in moneta (e quindi in oro), bisogna puntare ad incrementare le esportazioni (apportatrici di nuova moneta, quindi di oro e argento) e a diminuire le importazioni (che fanno perdere moneta a vantaggio dei concorrenti) per rendere uno Stato più ricco e più potente.

Protezionismo e colonialismo: non è possibile che tutti esportino più di quanto importino, quindi alcuni Stati devono essere importatori netti. Per fare questo, bisogna imporre questa condizione con la forza, per esempio applicando dei dazi tassando le importazioni ed esportando in Stati dove non ci sono dazi. Se in un paese ‘debole’ in cui si vogliono esportare merci sono attivi dei dazi, allora conviene imporre con la forza uno status coloniale, imponendo con le armi un Governo fantoccio in una colonia.

Pareggio di bilancio e tasse sui consumi: credenza diffusa all’epoca è che la moneta sia una merce e che sia nata nel settore privato per superare il baratto, attribuendole di fatto una funzione puramente commerciale. Secondo questa credenza sono le tasse che pagano i servizi pubblici e quindi siccome lo Stato deve ragionare come un’azienda, per finanziarsi deve tassare i cittadini. Il modo più semplice è tassare i consumi per fare surplus di bilancio.

Libero mercato (Laissez-faire): altra credenza diffusa nei “pensatori” mercantilisti è quella secondo cui lo Stato debba essere messo a margine dell’economia reale. O meglio, secondo i mercanti l’unico intervento tollerabile dello Stato in economia è quello che punta ad ampliare i mercati attraverso invasioni e colonialismo. Lo Stato deve limitarsi a garantire l’ordine pubblico e a tutelare i marcanti, lasciando a questi ultimi il compito di gestire l’economia. E’ molto apprezzato dai mercantilisti quando lo Stato concede e tratta monopoli per i mercanti, così da fargli aggirare la concorrenza (basti pensare alla Compagnia delle Indie Orientali Britannica nata proprio in quell’epoca).

Quanto vi suonano familiari questi principi? Pareggio di bilancio, puntare sulle esportazioni per competere sui mercati internazionali, libero mercato etc… non vi sembra roba che sentite tutti i giorni in televisione? Ecco, mentre però oggi abbiamo tantissime prove storiche e capacità matematiche necessarie per interpretare queste affermazioni, all’epoca questi dogmi erano frutto di pensieri elementari elaborati sulla base di conoscenze limitate e primitive. Ecco perché prima dicevo che oggi, in virtù delle nostre conoscenze attuali, questi concetti non andrebbero neppure presi in considerazione.

1.3   Dentro il pensiero mercantilista.

Ma chi erano questi personaggi? Colbert era un ricco figlio di mercanti che assunse svariate cariche governative, alcune anche esercitate contemporaneamente (anche questo è un aspetto in comune con i potenti di oggi, ovvero la presenza tentacolare in svariate posizioni di potere). E’ forse il più importante tra i mercantilisti visto che il mercantilismo in Francia viene chiamato “colbertismo”.

Sebbene gli si possano imputare anche aspetti positivi, come per esempio la riduzione degli sprechi (tenete presente il contesto monetario dell’epoca, in cui di certo non c’erano i principi della moneta fiat di oggi) bisogna considerare che i quattro punti cardine descritti sopra, sposati in pieno da Colbert, sono misure totalmente disfunzionali per l’economia. All’epoca magari poteva anche essere pubblicamente accettabile il concetto di Stato coloniale, ma nell’epoca attuale è umanamente impensabile giustificare una cosa del genere, nonché primitivo. Considerando le potenzialità tecnologiche ed economiche di oggi, pensare anche solo lontanamente che sia naturale e giustificabile l’esistenza di Stati ridotti alla fame e alla miseria da altri Stati (o peggio ancora da gruppi privati sovranazionali) che gli sottraggono indebitamente risorse è inaccettabile sia dal punto di vista ideologico che da quello pratico.

Anche la malsana convinzione che sia meglio puntare sull’export piuttosto che sulla domanda interna è terrificante. Infatti la corsa alle esportazioni porta alla competizione tra Stati e può persino portare alle guerre. Non è un caso che ai tempi in cui vigeva l’approccio mercantilista gli Stati entrassero in competizione per il domino sui mari, sulle terre e sul commercio e che si venisse alle armi per contendersi fette di potere. Inoltre allo stato attuale delle cose, puntare sulle esportazioni significa mettersi in competizione con Stati che magari hanno costi dieci volte più bassi e questo costringe le aziende (che sono dei privati) a tagliare gli stipendi per poter vendere a prezzi concorrenziali. Infine mentre un’economia basata sulla domanda interna è stabile, una basata sul commercio estero è intrinsecamente dipendente dagli altri Stati, il che significa che se dall’oggi al domani un proprio partner commerciale ritiene più opportuno andare a comprare da qualcun altro si va incontro ad una recessione matematica, soprattutto considerando che la mentalità mercantilista non vuole lo Stato tra i piedi.

Infatti pareggiare il bilancio dello Stato significa impedire a quest’ultimo di fare lo Stato perché non può mettere una pezza ai fallimenti e alle crisi di mercato a cui il mercato stesso è periodicamente soggetto quando viene lasciato libero di operare senza freni. I quattro punti di cui sopra se ci pensate, in fin dei conti, sono i punti chiave della globalizzazione di oggi. Quindi i globalisti stanno semplicemente applicando concetti vecchi di almeno 300-400 anni, superati da tempo e soprattutto storicamente ed empiricamente dimostrati essere fallimentari.

Colbert fu anche promotore di alcuni comportamenti che riscontriamo tutt’oggi nei capitalisti moderni. Infatti ai suoi tempi esistevano quelle che in Francia si chiamavano le métiers (in Italia si chiamavano “corporazioni delle arti”) cioè delle associazioni che andavano a definire dei regolamenti al fine di tutelare le attività dei membri appartenenti a delle stesse categorie professionali. Queste associazioni tra l’altro proteggevano indirettamente anche il consumatore perché vigilavano sulla qualità delle materie prime dei prodotti, sulla falsificazione, sulla concorrenza sleale, sulla corretta formazione degli artigiani etc…

Colbert era uno che riteneva che queste associazioni attraverso il loro operato di controllo fossero un ostacolo al commercio e quindi suggerì di aggirare il problema creando degli stabilimenti di proprietà privata (o del re) da rendere estremamente competitive attraverso:

Aiuti di Stato in varie forme (sovvenzioni pubbliche, concessioni di monopolio, sgravi fiscali etc…)

Manodopera a costo quasi zero (tipicamente vagabondi a cui veniva concesso il minimo indispensabile per sopravvivere, che era meglio che vivere in strada)

Beh non vi ricorda qualcosa? I nuovi servizi di mobilità che vorrebbero rimpiazzare i taxi non sono troppo diversi (ovviamente non c’è da considerare la formazione ma il resto dei concetti è lo stesso). Interessante tra l’altro come lo Stato dovesse “lasciare che il mercato si regolasse da solo” però poi i fondi pubblici dovessero essere reindirizzati su determinate manifatture, anche creando monopoli, per intervenire in modo sleale sul mercato…

E tutto questo si lega alla creazione delle compagnie commerciali privilegiate (come avvenuto per la Compagnia delle Indie Orientali in Inghilterra) che finanziate in modo massivo attraverso fondi pubblici e sgravi, come per le manifatture reali, avevano l’intento di realizzare un monopolio commerciale.

Tra l’altro Colbert, a proposito delle tasse, diceva [2]:

“L’arte della tassazione consiste nello spennare un’oca in modo tale da raccogliere il massimo numero di piume con il minor numero di sibili.”

Era gente che non andava affatto per il sottile con il popolo come avrete capito. 

Altro personaggio importante è William Petty. Anche Petty è vissuto durante il seicento ed è stato uno dei membri della Royal Society. A Petty si deve il primo tentativo di applicare il metodo scientifico all’economia, sebbene non produsse mai modelli veri e propri. Per esempio Petty voleva studiare in modo statistico le abitudini di consumo dei cittadini per capire dove e come andare a tassare. Notevole intuizione, sempre a patto che il risultato poi sia funzionale al benessere sociale invece che al benessere di pochi. Sfortunatamente non era mai così.

Petty dal punto di vista monetario era un precursore del monetarismo (di cui parlerò nei successivi capitoli), infatti in un certo senso anticipò quella che diverrà secoli dopo l’equazione di Fisher [7]:

“L’aumento del denaro può effettivamente cambiare le specie, ma con una svalutazione pari a quanto si rivalutano le monete straniere, al di sopra del loro valore intrinseco.”

Infatti ipotizzò che la ricchezza fosse uguale al prodotto tra la quantità di moneta e la sua frequenza di circolazione di mano in mano in un dato periodo. Spesso si attribuisce a Jean Bodin la nascita di questo approccio.

Per quanto riguarda la convinzione sulla ricchezza nelle esportazioni, sicuramente un ruolo chiave l’ha giocato Thomas Mun, mercante a capo della Compagnia Inglese delle Indie Orientali. Secondo Mun, esportare più di quanto si importa era il miglior modo per aumentare la ricchezza di una nazione, mentre tutte le altre politiche economiche correttive erano di secondaria importanza. Come dice in England’s Treasure by Foreign Trade [4], per vendere ogni anno agli stranieri di più di quanto si consumasse da loro era necessario che venissero:

“- Evitate le importazioni di merci che possono essere prodotte a livello nazionale.

– Ridotte le importazioni di beni di lusso indirizzando il gusto degli inglesi verso i prodotti inglesi.

– Minimizzati i dazi all’esportazione sui beni prodotti sul mercato interno per i mercati esteri.

– Fatte pagare di più le proprie esportazioni nel caso in cui gli Stati vicini non avessero alternative disponibili da cui comprare.

– Coltivati terreni abbandonati per massimizzare la produzione e per ridurre la quantità di importazioni necessarie dall’estero.

– Utilizzate solo navi inglesi per completare le spedizioni.”

Questo modo di fare è, a livello di Stato, decisamente individualista e colonialista, senza ritegno per la cooperazione internazionale. Ma tracce di questi approcci si trovano anche altrove. Per esempio l’avvocato Philipp Wilhelm von Hornick nel 1684 scrisse cosa secondo ui sarebbe stato necessario per l’incremento della ricchezza del paese [5]:

“Che tutte le esportazioni di oro e argento siano vietate e che tutto il denaro nazionale sia mantenuto in circolazione.”

Anche l’economista tedesco Johann Joachim Becher sosteneva che [12]:

“E’ sempre meglio vendere merci agli altri che acquistare merci dagli altri, poiché nel primo caso si acquista un vantaggio sicuro e nel secondo un danno certo.”

Questo perché il mercantilista vedeva nei metalli preziosi la ricchezza di una nazione. E’ possibile che l’idea metallista di cui ho ampiamente parlato nell’articolo sul denaro sia figlia di queste abitudini.

L’ultimo mercantilista su cui voglio mettere l’accento è John Law. Law è vissuto a cavallo tra il seicento e il settecento e probabilmente rappresenta uno tra gli ultimi esponenti dell’era mercantilista. Law fu uno dei primi ad occuparsi del ruolo della moneta e probabilmente fu uno dei primi a comprendere il fatto che non fosse necessario un metallo prezioso in rappresentanza della moneta. Law introdusse le banconote in Francia ma lo fece su dei presupposti diversi rispetto a quelli che conosciamo noi. Infatti lui sosteneva che le importazioni di oro dalle colonie aveva aumentato l’offerta di oro senza che ce ne fosse la reale domanda, quindi questo avrebbe causato una svalutazione dell’oro e quindi della moneta, pertanto i metalli preziosi non erano più idonei a fungere da moneta. Sviluppò allora una moneta che lui chiamava “fiduciaria” basata sul valore della terra, che lui reputava fisso (ovviamente niente di tutto questo ha analoghi con il vero concetto di moneta fiduciaria di oggi, cioè di moneta senza sottostante). Il problema c’era davvero anche in questa visione perché chiaramente pensare che la terra abbia valore fisso é un’assunzione veramente forte e infatti non sta in piedi, così come non sta in piedi tutto il modello.

D’altronde la visione di Law sulla moneta è figlia dell’ignoranza storica del tempo perché, come tutti gli altri, John Law pensava che in principio ci fosse stato un qualche sistema di baratto. Ho ampiamente smontato questa tesi attraverso gli studi di economisti dello scorso secolo.

William Petty (a sinistra), John Law (al centro) e Thomas Mun (a destra).

1.4   La mala interpretazione dell’inflazione, il declino mercantilista e la nascita della fisiocrazia.

Dunque la filosofia mercantilista era figlia della crescente rilevanza sociale che i mercanti iniziavano ad ottenere in virtù del contesto storico: siamo nell’epoca del primo colonialismo imperialista in cui navi di mercanti andavano alla ricerca di risorse in terre inesplorate e ritornavano con tonnellate di materiale (tra l’altro bisognerebbe anche ridimensionare l’entità delle importazioni di oro dalla Americhe visto che gran parte era in realtà argento [3]).

Il risultato della concomitanza di due fattori determina però un cambiamento drastico. Infatti tra l’inizio del ‘500 e la fine del ‘600 in Europa si assiste ad un’inflazione abbastanza rilevante (per esempio il livello generale dei prezzi quintuplica in Spagna in quel periodo, mentre in Inghilterra quasi quadruplica [3]). Le cause sono due e, come detto prima, sono concomitanti:

– l’aumento delle materie prime disponibili

– le costanti guerre nel continente che peraltro impiegavano almeno la metà del budget imperiale.

Questo porta ad una graduale inflazione e la filosofia mercantilista inizia a trovare i primi ostruzionismi. Il primo in assoluto viene addirittura da un mercantilista: Jean Bodin. Bodin parla di “eccesso di oro e di argento” come causa radice principale [11]. Di un’idea formalmente analoga è il filosofo David Hume [6]:

“Anche se il prezzo elevato delle merci è una conseguenza necessaria dell’aumento dell’oro e dell’argento, non è effetto immediato di tale aumento, ma c’è bisogno di un certo tempo affinché il denaro circoli in ogni parte dello stato e il suo effetto si faccia sentire in ogni strato della società. In un primo momento, non si percepisce nessun cambiamento; il prezzo sale gradualmente, in primo luogo di una merce, poi di un’altra, fino a quando tutti finalmente raggiungano una proporzione adeguata alla nuova quantità di moneta presente nel regno.”

Quindi in buona sostanza, esportando troppo c’è eccessivo afflusso di metalli preziosi, quindi aumenta il livello generale dei prezzi, a cui segue un riequilibrio della bilancia commerciale (quindi un calo delle esportazioni). Praticamente non è un sistema che si può ritenere “stabile”. Tra l’altro questo approccio economico trascura la domanda interna, quindi nonostante introduca ricchezza all’interno del paese, non traduce automaticamente quella ricchezza in benessere dei cittadini. Infatti trascurare il mercato interno significa rendere stagnante l’economia interna del paese, con depressione salariale e disoccupazione. Senza contare le già citate conseguenze di una politica economica basata sull’export, cioè i conflitti, la competizione, il colonialismo e le guerre.

Inoltre un altro errore del mercantilismo è stato quello di dare corda alla tendenza dei mercanti a demonizzare la competizione. Il mercante in quel periodo storico preferisce il monopolio e come dimostreranno altri economisti in epoche successive questo è un grosso errore.

Il momento che probabilmente ha segnato più di tutti il declino del mercantilismo è quello delle bolle finanziarie. Strano a dirsi, ma già nel ‘700 c’erano le borse azionarie e in particolare i titoli della Companie d’Occident (cioè la compagnia che sfruttava le miniere d’oro della Louisiana) subiscono una speculazione rialzista senza precedenti, considerando anche il fatto che il valore in borsa in quel momento non riflette minimamente il valore reale della Compagnia. E quello non è un caso isolato: varie altre società fondate sul niente finiscono per essere sopravvalutate in borsa.

Ad un certo punto in Francia inizia a svilupparsi quindi un’alternativa: la filosofia fisiocratica.

In Francia più che in altri paesi rimane vivo e sentito l’attaccamento alla terra. Ai vertici della gerarchia sociale, sotto il re, c’è l’aristocrazia terriera e questa ha concesso poco al mercantilismo. Anzi, ad un certo punto quando il mercantilismo inizia la sua fase di declino sono proprio loro a proporre qualcosa di diverso (chiaramente nei loro interessi). Iniziano a farsi chiamare “economisti” sebbene l’appellativo di economista arriverà solo 150 anni dopo.

I fisiocratici tentano di opporsi al mercantilismo portando l’agricoltura al centro dell’interesse di uno Stato. Il fenomeno rimane confinato prevalentemente in Francia e le sue basi poggiano sul pensiero di François Quesnay, di Richard Cantillon, di Victor Riqueti de Mirabeau, di Anne-Robert-Jacques Turgot e di Pierre-Samuel du Pont de Nemours (il padre di quel Du Pont che emigrato in America ha fondato la multinazionale che conosciamo tutti). Secondo i fisiocratici la natura è la vera fonte di ricchezza e la ricchezza continua ad essere un valore definito e limitato ma che circola all’interno di un sistema economico chiuso. La conseguenza di questo è che è necessario uno spostamento del baricentro economico di uno Stato dallo scambio estero verso la produzione agricola per sé stessi. Sono i primi a parlare di “sistema economico” ma soprattutto di “economia chiusa”, sebbene con tutti i limiti del caso.

I fisiocratici sono i primi a suddividere l’economia in classi sociali, anche se non le classi sociali che conosciamo oggi. Tuttavia, nonostante si oppongano al mercantilismo. in realtà sostengono comunque lo sciagurato principio del libero mercato (laissez-faire): lo Stato deve intervenire il meno possibile in economia e lasciare che l’economia venga regolata dalle “leggi della natura”. Questo principio secondo cui esiste una fantomatica legge di natura sottesa al mercato (quasi come se fosse una legge del tutto incomprensibile agli umani ma che va a definire un equilibrio di sistema) è quindi un principio vecchissimo che non è stato definito da Adam Smith come molti erroneamente pensano ma che era insito già nei mercantilisti e nei fisiocratici. La fede nel libero mercato dunque è di fatto una fede medievale (quando i sovrani erano dei despoti). 

La fisiocrazia attraverso Quesnay introduce per la prima volta una rozza formalizzazione dell’idea, attraverso un rudimentale modellino matematico di equilibrio che, ispirandosi alla circolazione sanguigna, analizza l’economia come un sistema chiuso e stazionario in cui i prodotti dell’agricoltura sarebbero stati l’unico strumento in grado di portare ricchezza, da distribuire tra le due classi sociali prese in considerazione da Quesnay (cioè i produttivi composti dai coltivatori della terra e gli improduttivi composti dai commercianti e tutti gli altri). Dunque inizia a nascere l’idea di mettere al centro non più lo stock di ricchezza ma il flusso della stessa.

Questa formalizzazione è contenuta nel Tableau économique di Quesnay [10]. Secondo quest’ultimo l’agricoltura è l’unico settore in grado di generare surplus, mentre tutti gli altri possono solamente compiere trasformazioni di prodotti esistenti. Quesnay per esempio scrive [13]:

“Perché possa aumentare il numero dei calzolai deve esserci prima un aumento del numero delle pelli bovine.”

Questo è il principio del prodotto netto, cioè il fatto che nessuna ricchezza deriva dall’industria, dal commercio o dall’occupazione ma questa deriva solo ed esclusivamente dall’agricoltura. Sono quindi i proprietari terrieri che si devono ergere al di sopra di tutto e tutti, non i mercanti. Sempre Quesnay scrive [14]:

“L’agricoltura è la fonte di ogni ricchezza dello Stato e della ricchezza di tutti i cittadini.”

Questo però viene posto in modo da sembrare una necessità nazionale, cioè che l’unico modo per lo Stato di aumentare la propria ricchezza è quello di incoraggiare l’agricoltura. Ovviamente i principali sostenitori di questo pensiero erano proprietari terrieri che vedevano nella fisiocrazia uno strumento per ergersi socialmente al di sopra degli altri. E’ così che Quesnay mette su uno schema tabellare che mostra come i vari settori si scambiano ricchezza, appunto il Tableau économique [10]:

Al tempo è un’idea geniale, la prima analisi input-output della storia dell’economia moderna. Oggi possiamo vedere bene quanto sia viziata nel suo svolgimento, ma al tempo era un grande passo avanti.

La parentesi fisiocratica per fortuna durò molto poco, infatti all’orizzonte stava per fare la sua comparsa il primo grande personaggio della storia dell’economia: Adam Smith.

BIBLIOGRAFIA E FONTI

[1]   Discorsi sul sale e sul ferro – 鹽鐵論T (81 a.C.)

[2]   The Economist (2014), Plucking the geese

[3]   John Kenneth Galbraith (1987), Storia dell’Economia

[4]   Thomas Mun (1664), England’s Treasure by Foreign Trade

[5]   Phillip Wilhelm von Hornick (1684), Austria Over All, If She Only Will

[6]   David Hume (1752), Escritos economicos

[7]   William Petty (1769), Tracts, Chiefly Relating to Ireland: Containing: 1. A Treatise of Taxes and Contributions. II. Essays in Political Arithmetic. III. The Political Anatomy of Ireland, p.79

[8]   John Locke (1691), Some Considerations of the Consequences of the Lowering of Interest and Raising the Volue of Money

[9]    Gerard de Malynes (1603), England’s View in the Unmasking of two Paradoxes

[10]  François Quesnay (1758), Tableau économique

[11]   Arthur Eli Monroe (2014), Early Economic Thought

[12]   Eric Roll (1992), A History of Economic Thought

[13]   François Quesnay (1841), Dialogues sur le commerce et sur les travaux des artisans

[14]   François Quesnay (1767), Maximes générales

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