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Siamo sicuri che il privato sia meglio del pubblico?

Foto in evidenza caricata da Emily Morter su Unsplash.com, disponibile a questo link. Foto rilasciata con licenza CC0.

Tutti coloro che leggono questo blog sanno benissimo quanto ci teniamo ad essere oggettivi. E’ innegabile che la società attuale è schiava di una serie di luoghi comuni che, a differenza della saggezza contadina, provengono da manipolazioni dell’informazione collettiva. L’obiettivo è prendere questi luoghi comuni, analizzarli e cercare di capire se hanno fondamento o se sono “fake news”.

In questo articolo voglio analizzare il preconcetto secondo cui “il privato è meglio del pubblico”. Se avete letto i nostri articoli siete consci del fatto che questa visione non è figlia di constatazioni oggettive, ma è tutto sommato un luogo comune. Quello che voglio fare è dimostrare che è un luogo comune infondato e lo voglio fare su più fronti.


1.   L’efficienza dei privati.

Quante volte avete sentito dire che i privati sono più efficienti del pubblico? Questa convinzione deriva da un martellamento costante da parte delle scuole economiche di matrice liberista, soprattutto a partire da metà ottocento. Questa idea quindi è vecchia di 200 anni e tutto sommato nessuno ha mai realmente dimostrato la sua veridicità. Tuttavia più di qualcuno ha dimostrato il contrario. Economisti del passato come Frank Knight o Milton Friedman erano fortissimi propugnatori della privatizzazione delle aziende statali perché secondo quel filone di economisti “i mercati sono molto più efficienti di quanto possa essere qualsiasi Governo”. Una volta mandate in crisi le politiche keynesiane, molti economisti sono tornati all’approccio neoclassico, tornando proprio a quel modo di ragionare. Le selvagge privatizzazioni degli anni ’90 sono figlie esattamente di questo. Ma come dimostra un report della Corte dei Conti, le privatizzazioni non hanno prodotti i benefici che i liberisti sbandieravano tanto (cioè maggiore efficienza e spese ridotte[1].

Partendo infatti dal concetto (tutt’altro che economico) di maggiore efficienza, con essa si intende un maggiore rendimento, cioè si intende che l’utente finale vede un risultato migliore a parità di condizioni. Il concetto di risultato migliore a parità di condizioni, per l’utente finale, significa che a parità di qualità del servizio offerto il prezzo si abbassa. Ebbene ad eccezione della telefonia non c’è stato nessun caso di privatizzazione in Italia che abbia aumentato l’efficienza del servizio fornito [1]. Il report mostra come, partendo da dati di Margine operativo lordo (EBITDA) di 106 aziende forniti da Amadeus, se è vero che le performance sono migliorate nel processo di privatizzazione è anche vero che il costo per l’utente finale è salito. Di conseguenza non è possibile sostenere che questo sia un miglioramento del servizio a parità di condizioni, infatti sono proprio le condizioni a cambiare: se un’azienda fornisce lo stesso servizio allo stesso prezzo ma taglia la metà del personale, per l’utente finale ciò sarà completamente trasparente. Quello che l’utente percepisce è invece il fatto che, per esempio, a seguito del taglio del personale cali la qualità del servizio a parità di prezzo (e questa è una perdita di efficienza) oppure che a parità di qualità paghi di più per lo stesso servizio (e pure questa è una perdita di efficienza).

Tra l’altro basti pensare che, come evidenziato anche nel report, lo scopo per esempio delle utilities pubbliche non è quello di fare efficienza di per sé, ma quello di ottimizzare l’occupazione e allo stesso tempo garantire un servizio pubblico senza che i costi per l’utente finale siano eccessivi. Questo è chiaramente possibile solo se l’azienda opera “in perdita” e questo è chiaro se sono chiari i bilanci settoriali. Così come è chiaro che in termini di operatività non si può pensare che avendo come obiettivo quello di ottimizzare l’occupazione si possa contemporaneamente avere un bilancio in attivo mantenendo i costi bassi.

La privatizzazione quindi si trova quindi davanti un binomio di per sé impossibile da gestire: fornire un servizio tendenzialmente in perdita o in pareggio mantenendo dei prezzi bassissimi senza abbassarne la qualità e senza che questo alteri l’occupazione. Queste sono un chiaro esempio di quello che Keynes già spiegava nel 1936: lo Stato gestisce tutto ciò che, se dipendesse dai privati, nessuno gestirebbe perché non profittevole. E’ intrinseco nella natura del settore privato il fatto che ogni mero utilizzatore della moneta ha come scopo quello del profitto; dall’altro lato, l’emittente della moneta non ha necessità di fare profitto, quindi può operare tranquillamente in perdita e allo stesso tempo può garantire dei servizi alla collettività a prezzi contenuti.

Nel report si evidenzia che salvo rare eccezioni la privatizzazione ha sempre portato ad un aumento dei costi per l’utente finale. Va da sé che se paradossalmente tutto venisse privatizzato, la maggior parte dei costi sostenuti dalla collettività si alzerebbe. Da qui ne segue che, soprattutto per i servizi essenziali, vi sarebbero spinte inflattive, le quali porterebbero ad ulteriori aumenti dei costi per quelle aziende privatizzate, le quali alzerebbero ancora di più i prezzi in una spirale simile a quella stagflattiva.

Dunque la tanto sbandierata efficienza in realtà viene intesa miglioramento delle performance aziendali. Questo è provato anche dai dati, nel senso che è vero che le aziende privatizzate hanno una più elevata redditività (sebbene con indebitamenti superiori) ma questa maggiore redditività è associata sostanzialmente ad un aumento delle tariffe per gli utenti finali e solo in minima parte all’ottimizzazione dei costi [2].

2.   L’impatto sul debito pubblico.

Nemmeno il tanto sbandierato “miglioramento dei conti pubblici” (che se avete studiato economia sapete benissimo che è una frase che lascia il tempo che trova) a fronte delle privatizzazioni è così certo come sembrerebbe. Infatti privatizzando un’azienda pubblica si hanno principalmente due effetti:

Riduzione del servizio del debito
L’emissione di denaro da parte dello Stato per finanziare quelle aziende avviene attraverso il sistema bancario e quindi attraverso un tasso di interesse. In definitiva quell’emissione di denaro viene ripagata nei periodi successivi emettendo altro denaro (servizio del debito). Se un’azienda viene privatizzata, nel medio periodo la quantità di denaro necessario per provvedere al servizio del debito diminuisce, quindi in buona sostanza si riduce la necessità da parte dello Stato di emettere nuova moneta.

Distruzione di IOU di Stato
Se un’azienda statale viene privatizzata, il privato provvede all’acquisto sborsando una certa somma. Quella somma è espressa in valuta di Stato, quindi è un IOU precedentemente emesso dallo Stato come debito nei confronti del settore privato. Poiché in questa operazione torna allo Stato, quell’IOU viene distrutto (vedi qui per capire l’IOU). Con la distruzione degli IOU di Stato, il debito che lo Stato ha nei confronti del settore privato diminuisce.

In buona sostanza secondo i difensori delle privatizzazioni questo finisce per essere benefico per lo Stato perché riduce il debito pubblico. Come forse già sapete, la riduzione del debito pubblico non è affatto un obiettivo dello Stato e non è nemmeno un obiettivo della macroeconomia. L’importante in questo processo per uno Stato è cercare di non indebitarsi in valuta estera, ma se l’indebitamento avviene in valuta di Stato il problema del debito pubblico è un falso problema. Il debito pubblico essendo la somma di tutti i deficit di Stato fatti nel corso della storia, non può che salire anno dopo anno perché poiché lo Stato non è un’azienda va amministrato tendenzialmente in perdita. Come sapete uno Stato in grado di emettere valuta nazionale non ha la necessità di finanziarsi attraverso le tasse mentre un privato ha bisogno di finanziarsi anche attraverso i suoi ricavi. La mancata comprensione di questo meccanismo (volontaria o meno) ha fatto sì che nel corso del tempo per tutti voi sia stato normale pensare che a causa del debito pubblico elevato sia stato necessario privatizzare le aziende statali.

Tra l’altro, poiché la privatizzazione porta tipicamente ad un aumento del costo dei servizi a parità di qualità, questa riduzione di debito pubblico attuata sottraendo allo Stato i costi di gestione delle imprese statali in pratica viene pagata dal settore privato, in qualità di utente di quegli stessi servizi. E’ come se, alla fine della fiera, la fetta di riduzione di debito pubblico venisse pagata “a rate” dai cittadini che utilizzano quei servizi. Poiché come ho già spiegato ripagare il debito pubblico è non solo inutile ma persino recessivo (togliere moneta di Stato dal settore privato per ripagare un soggetto che la moneta di Stato la emette riduce il PIL) va da sé che questo processo scoraggia i consumi visto che tende ad alzare i prezzi.

E sto considerando i privati solo dal punto di vista teorico perché se ci metto pure l’atto pratico le cose peggiorano ulteriormente. Infatti ho considerato sempre l’ipotesi “a parità di qualità del servizio”. Come dimostrano i recenti casi nel settore autostradale, in cui agli aumenti dei pedaggi non sono seguiti ammodernamenti delle infrastrutture, messa in sicurezza delle strutture più vecchie e ottimizzazione della manutenzione, il beneficio è alla fine intascato solo dal soggetto privato divenuto detentore del servizio. Mentre il settore pubblico (sempre in un’ottica sovrana chiaramente, non guardate l’Eurozona) avrebbe garantito la qualità del servizio, il privato tende a non farlo, sempre per il discorso del margine di profitto. E nel frattempo i disservizi finiscono per riversarsi sugli utenti finali, che a volte possono anche rimetterci la vita.

3.   Pubblico e privato dal punto di vista della finanza.

Sia le aziende pubbliche che le aziende private hanno titoli in borsa. Per un’azienda passare dall’essere pubblica all’essere privata significa passare da un meccanismo di sostentamento sicuro ad un meccanismo di sopravvivenza in un mercato competitivo. Un investitore se deve comprare dei titoli si trova davanti quindi uno scenario in cui i titoli pubblici sono a bassissimo rischio e basso rendimento e i titoli privati sono ad alto rischio e alto rendimento. In pratica è come passare da un sistema in cui tutti possono accedere e investire in modo praticamente sicuro senza avere una particolare conoscenza del settore ad un sistema in cui nemmeno i più esperti possono essere sicuri al 100% del risultato e gli investimenti sono ad alto fattore di rischio. 

I mercati finanziari sono un mondo non adatto alla gente comune. Purtroppo il trading online ha costruito un’immagine distorta di quel mondo, facendo sembrare tutto facile e gestibile da un’app del telefono. Ecco questa visione è profondamente scorretta perché i mercati finanziari richiedono un’esperienza ed un background di conoscenze notevoli. Mentre la maggior parte della popolazione è in grado di trattare (per esempio) i titoli di Stato, poche persone possono trattare titoli ad alto rischio in un mercato finanziario.

Privatizzare le aziende statali significa andare a modificare il portafoglio degli investitori portandolo verso attività più rischiose. Ovviamente questi costi non li paga lo Stato, ma ancora una volta li pagano gli investitori. Tra l’altro aprendo una breve parentesi, l’idea delle aspettative razionali che permea l’economia mainstream qui si dimostra in tutta la sua fallacia. La collettività mediamente non sa nulla di economia e non può sapere cosa aspettarsi dal futuro. Lo dimostra il fatto che solo il 5% dei trader è almeno in pareggio, gli altri sono tutti in perdita. Considerando che i trader sono già persone che comunque hanno un minimo di confidenza con certe tematiche rispetto alla persona media, questo testimonia che la maggior parte della popolazione non ha aspettative razionali. Dunque se i titoli disponibili sono sempre di più ad alto rischio, aumenterà anche la percentuale di persone che investe con rischi che non è in grado di gestire.

4.   La tendenza all’inefficienza delle grandi aziende.

Questo punto per alcuni potrebbe risultare strano, ma per chi ha una grossa esperienza in grandi aziende si ritroverà in quello che sto per scrivere. L’economista Alfred Marshall, uno dei formalizzatori del liberismo neoclassico, sosteneva che al crescere delle dimensioni di un’azienda industriale la sua efficienza aumenta progressivamente perché all’aumento dei volumi di business, al suo interno si riorganizzerà in modo sempre più efficiente. Anche a seguito di affermazioni come questa, propinate per lungo tempo anche dai media, la gente ha finito per associare il concetto di “multinazionale” (o in generale di grande azienda) a “quelli bravi”, “quelli che non scherzano”. Questa idea malata è falsa su tutta la linea, per vari motivi.

Innanzitutto una multinazionale è un apparato che supera la dimensione limite entro cui tutto è controllabile a tutti i livelli da un singolo individuo, quindi finisce per essere costituita da più dipartimenti. Questi dipartimenti, coordinati da persone differenti, spesso hanno diversi tipi di obiettivi e a volte questi obiettivi sono anche contrastanti tra loro, portando già di per sé ad una maggiore difficoltà lavorativa. Una struttura così grande, poiché non può essere gestita da una sola persona a tutti i livelli, necessità di processi e di procedure, quindi di burocrazia. Quindi finisce per mettere su apparati burocratici che creano sempre più inerzia. Ogni decisione che prima sarebbe stata istantanea (perché supervisionata direttamente dal tuo unico superiore) finisce per passare tra diversi dipartimenti con conseguente perdita di tempo e tra l’altro senza alcuna garanzia che la decisione presa sia quella giusta. Tra l’altro in molte aziende alcuni dipartimenti cardine vicini nemmeno si parlano e questo contribuisce all’inefficienza.

Altro aspetto chiave è che per esempio, si pensa spesso che una multinazionale sia unica, nel senso che le diverse sedi in giro per il mondo in realtà siano parte di un organismo comune. La realtà, anche qui, è assai diversa. Chi ci lavora lo sa, la generica “Tizio&Caio Italia” è disallineata rispetto alla “Tizio&Caio India“. Se un cliente di quell’azienda dovesse rivolgersi in India piuttosto che in Italia alla stessa azienda, l’approccio, i costi, le modalità operative e l’efficienza stessa sono diversi. Ne segue che operano di fatto come se fossero due aziende separate.

Questo è anche accentuato dal fatto che essendo soggetti che operano in mercati competitivi non hanno la possibilità, per non erodere i loro margini di profitto e gli stipendi stellari dei direttori, di spendere quanto guadagnato per ammodernare l’azienda in termini di strutture, dispositivi, mezzi etc… In pratica i lavoratori si ritrovano a lavorare in ambienti spesso vecchi, maltenuti, spenti e che di certo non aumentano la produttività e l’efficienza. 

In poche parole queste dinamiche trasformano le aziende, all’aumentare delle dimensioni, in piccoli Stati. Già, negli Stati che tanto criticano. E non sono gestite affatto meglio. Questo perché la gestione così “dispersiva” da parte di strutture enormi è la normalità, al crescere delle dimensioni aumenta per forza di cose l’inerzia. Solo che a differenza degli Stati sono dei privati, quindi non sono al vertice della piramide di accettabilità della moneta e quindi saranno sempre inferiori, soprattutto in termini di potenzialità.

Per concludere: il privato è meglio del pubblico? no. Il privato è una libertà che il pubblico concede alla cittadinanza, ma deve restare nelle sue limitate dimensioni altrimenti finisce per mettere insieme le sfighe che si porta appresso un’entità delle dimensioni dello Stato con le sfighe che si porta appresso un’entità che non può emettere valuta di Stato. In poche parole devono stare al loro posto, restare nel loro piccolo e puntare non al profitto smisurato ma alla fornitura di un servizio efficiente e alla diffusione del progresso, oltre che ad aiutare il settore pubblico a gestire l’occupazione.

Dati alla mano, sono le PMI ad essere la spina dorsale delle nazioni a livello di settore privato. Si pensi per esempio che su 24 settori della produzione industriale, in ben 20 di essi le medie imprese rappresentano oltre il 60% del PIL (e quindi sono più produttive delle multinazionali) e addirittura in 10 di quei settori le multinazionali vengono battute persino dalle piccole imprese (tessile, abbigliamento, gomma e plastica, macchine da cantiere, mobili, metalmeccanica, pelletteria, legno, riparazioni e installazioni, altro). In definitiva le PMI producono almeno il 59% del PIL italiano [4].

In un report disponibile sul sito della think tank Aspen Institute si può leggere che, a differenza di moltissimi gruppi multinazionali, le PMI italiane hanno creato complessivamente 42.800 posti di lavoro durante la crisi del 2008, cosa che ha contribuito ad incrementare il PIL di più di un miliardo di euro. Il tutto mentre invece le grandi aziende hanno tagliato ben 184.900 posti di lavoro nello stesso periodo. Se andiamo a vedere i dati relativi ai primi quattro paesi d’Europa, in totale le PMI hanno creato nello stesso periodo 286.200 posti di lavoro mentre i grandi gruppi hanno lasciato a casa quasi un milione e mezzo di lavoratori [4].

Questo è per dire che persino in periodi di crisi sono le PMI a tenere su un paese, visto che i dati confermano che la tendenza di sopra è valida almeno per i quattro paesi più importanti d’Europa (Germania compresa). Questo conferma la mia tesi secondo cui in realtà al crescere delle dimensioni di un’azienda la sua reale efficienza non aumenta, bensì tende a diminuire perché finisce per assimilare le sfighe che solo il settore pubblico può controllare e allo stesso tempo mantiene le sfighe di un apparato privato, il quale non può emettere moneta di Stato. Dunque superata una certa dimensione sembra più che un’azienda diventi una macchina che assimila più energia di prima e in modo meno efficiente. E tutto questo considerando che, per motivi e dinamiche che è inutile spiegare qui, le multinazionali sono in grado di “risparmiare” portando la loro sede legale in posti dove le tasse sono ridicole, sono in grado di collocare capitale presso paradisi fiscali e che sono in grado di evadere venendo a patti col fisco nei vari paesi in cui operano [5, 6]. In buona sostanza, nonostante tutti questi privilegi riescono ad essere meno efficienti delle PMI su praticamente tutti i settori industriali… se fossero cellule di un corpo umano avete già capito a cosa sarebbero paragonabili. Va da sé che il loro peso nel mondo del business e in generale nel panorama economico deve essere limitato perché stando ai principi che gli stessi liberisti difendono, sembrano essere più dei centri di spreco che delle macchine per generare progresso in modo efficiente.

BIBLIOGRAFIA E FONTI

[1]   Luigi Mazzillo (2010), Obiettivi e risultati delle operazioni di privatizzazione di partecipazioni pubbliche, Corte dei Conti

[2]   Carlo Cambini & Laura Rondi (2006), Struttura finanziaria e investimenti in un’impresa regolata

[3]   Alfred Marshall (1892), Elements of economics of industry

[4]   Le medie imprese italiane, Aspen Institute

[5]   Lorenzo Sala (2019), Quanto ci costa l’elusione fiscale delle multinazionali, IlSole24Ore

[6]   Roberto Galullo & Angelo Mincuzzi (2019), Nei paradisi fiscali nascosti dagli italiani 142 miliardi (l’8,1% del Pil), IlSole24Ore

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