Addio curva di Phillips?
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Di recente sono stato messo al corrente del fatto che Jerome Powell, attuale chairman della FED ha dichiarato che il legame espresso dalla curva di Phillips è andato progressivamente indebolendosi, al punto che non è più valido. Inoltre ha anche dichiarato che la politica monetaria non è così efficace per gestire l’economia dei paesi [1].
Per capire l’importanza di queste frasi bisogna fare un cappello introduttivo (c’è un articolo di natura storica che spiega meglio tutto questo, qui si da solo un accenno).
1. La curva di Phillips.
Alla fine degli anni ’50, William Phillips scrisse un articolo dal titolo “The relation between unemployment and the rate of change of the money wage rates in the United Kingdom, 1861-1957” [2]. Analizzando i dati relativi ai salari monetari e ai tassi di disoccupazione nel solo Regno Unito, Phillips tracciò una curva che rappresentava la relazione inversa tra queste variabili.
La curva che ricava alla fine è qualcosa di simile a quanto indicato in Figura 1, dove c’è una curva ricavata per regressione a partire dai punti sul grafico:

Figura 1 – Curva di Phillips come concepita in origine.
Di per sé, nelle conclusioni di Phillips c’è solamente l’errore di dare validità generale ad un risultato ottenuto da dati empirici su un solo paese in un orizzonte temporale limitato. E questo è un grosso limite come potete immaginare.
Due anni dopo Paul Samuelson e Robert Solow proposero invece una relazione analoga ma che mettesse in relazione il tasso di inflazione al tasso di disoccupazione (questa è quella che oggi viene chiamata curva di Phillips):

Figura 2 – Curva di Samuelson-Solow (passata poi alla storia come Curva di Phillips) che mette in relazione il tasso di inflazione e il tasso di disoccupazione.
In generale comunque la curva indica che ad alti livelli di tasso di inflazione corrispondono sempre bassi livelli di tasso di disoccupazione e viceversa. Molti economisti sono stati fermamente convinti della generalità di questa relazione per anni, ma poi negli anni ’70 successe qualcosa che (per come è costruita la curva) era quasi scontato accadesse: questo legame inizia a vacillare.
2. I primi cenni di debolezza della curva e la revisione monetarista.
Durante il periodo della “stagflazione” degli anni ’70 si verificano contemporaneamente alta inflazione e alta disoccupazione, cosa che secondo la curva era impossibile.

Figura 3 – Curva di Phillips di breve e di lungo periodo introdotta dalla scuola di Chicago.
Intervennero gli economisti della scuola di Chicago e si inventarono un modello da cui discende la politica economica che viene attuata attualmente. L’idea è che la curva di Phillips secondo loro continua ad essere valida, ma si sposta nel lungo periodo. Spiego meglio.
Secondo questa teoria, il tasso di disoccupazione nel breve periodo (u* nel grafico) e la curva di Philips di breve periodo è quella verde chiaro individuano il tasso di inflazione in corrispondenza del punto A. A seguito di uno stimolo (ad esempio un incremento della spesa pubblica) si ottiene come effetto di breve periodo quello di abbassare la disoccupazione (cioè portandosi nel punto B). A seguito di questo però, col tempo aumenterebbero i consumi e quindi dovrebbero aumentare i prezzi, quindi gli imprenditori iniziano a scoraggiarsi dall’assumere perché essendo aumentati i prezzi sono aumentati anche gli stipendi e quindi i costi. Allora nel lungo periodo inizia ad aumentare il tasso di disoccupazione e siccome si da per scontato che la curva di Phillips abbia validità generale, si raggiunge un nuovo punto di equilibrio (punto C) in cui l’inflazione è rimasta la stessa ma la disoccupazione è ritornata quella di prima. Questo punto sarebbe un nuovo punto di equilibrio su una nuova curva di Phillips più spostata verso destra. Il risultato finale è che l’intervento dello Stato attraverso la spesa pubblica avrebbe effetti benefici solo nel breve periodo, mentre nel lungo periodo non solo non è in grado di migliorare il tasso di disoccupazione ma addirittura ha come effetto quello di aumentare l’inflazione.
Quelli di Chicago da qui teorizzano l’esistenza di un “tasso di disoccupazione strutturale” chiamato NAIRU (che è appunto u* ) e questo tasso di inflazione sarebbe quello attorno al quale l’economia tende a portarsi spontaneamente nel lungo periodo. Qualsiasi sforzo volto a ridurre la disoccupazione al di sotto del NAIRU causerebbe immediatamente un aumento dell’inflazione attesa, quindi le politiche economiche degli Stati dovrebbero essere incentrate non sul contenimento della disoccupazione ma sul contenimento dell’inflazione perché cercare di portare la disoccupazione al di sotto del NAIRU avrà comunque come effetto quello di riportarla a quel valore nel lungo periodo. Peraltro questo rende l’inflazione un fenomeno “tecnico” da risolvere in modo, appunto, tecnico. Va da sé che perde di importanza la politica in favore dei tecnici in economia che diventano un po’ come una sorta di santoni del livello generale dei prezzi.
Dopo che il mondo in preda al panico, attaccandosi appunto a qualsiasi santone che millanti di avere una soluzione, ha accettato come verità questa idiozia ed ha accantonato la politica fiscale (cioè l’impiego del deficit) per controllare l’economia attraverso la politica monetaria (quindi attraverso il controllo dell’emissione monetaria e del tasso di interesse).
Fu così che nel 1993 ha accettato, senza troppi indugi, una “buona regola” di politica monetaria inventata da John B. Taylor basata proprio sull’adeguamento del tasso di interesse alla “distanza” del sistema dal NAIRU:

Quindi il tasso di interesse della Banca Centrale verrebbe deciso in questo modo. C’è anche una formulazione alternativa di questa legge, che coinvolge il tasso di disoccupazione:

Questi modelli prendono il nome di “modelli a gap” perché si basano sull’output gap, cioè la differenza tra il PIL effettivo nel periodo attuale e il PIL che potenzialmente si avrebbe se il tasso di disoccupazione fosse pari al NAIRU. La solita solfa neoliberista sul fatto che le persone devono accettare la competizione. Ovviamente ho semplificato per motivi di spazio, ma su per giù questo è quello che bisognava sapere. Ora che avete il quadro generale veniamo al punto di Jerome Powell.
3. Perché la curva di Phillips è come la corazzata Potëmkin?
E’ già un po’ di tempo che sostengo che la curva di Phillips non solo non ha validità generale, ma non ha senso proprio come relazione (e non sono il solo a pensarlo). Sentire chi è a capo della FED ammettere che la curva di Phillips è uno strumento fuorviante onestamente mi riempie il cuore di gioia perché se è vero che sicuramente esiste una relazione tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione, questa è sicuramente molto ma molto più complicata di quanto descritta dalla curva di Phillips.
Se andiamo a prendere i dati della Banca Mondiale, possiamo andare per esempio a vedere se effettivamente la curva di Phillips come mostrata finora è una relazione realmente univoca [3] o quantomeno vera in senso generale. Ho preso dunque dei paesi rappresentativi di economie diverse (Australia, Argentina, Giappone, Germania, Myanmar, Brasile, India, USA, Sudafrica, Zimbabwe, Gran Bretagna e Italia) ed ho voluto appurare se esiste una correlazione univoca di quel tipo, quindi una curva sul piano “tasso di inflazione/tasso di disoccupazione” che avesse lo stesso andamento per tutte le economie in questione. D’altronde, se ha validità generale, deve valere per tutti. Ho epurato i dati dalle inflazioni superiori al 50% perché in quel caso già iniziamo a parlare di condizioni economiche non ordinarie che sballerebbero la curva. Perciò, una volta essermi messo “dalla parte della curva” e avendo quindi escluso qualsiasi possibile dato che possa portarmi fuori strada, ho raccolto i risultati:



Figura 4 – Curve di Phillips reali di 12 paesi, con dati tra il 1960 e il 2017, epurati dalle inflazioni superiori al 50%. Elaborazione grafica a partire da dati della Banca Mondiale [3].
Come dimostrano i dati, non c’è una curva univoca. Anzi, spesso gli andamenti sono completamente discordi e in alcuni casi addirittura i dati sono così sparsi che tentare di ricondurli ad una funzione perde di senso. La curva proposta da Samuelson-Solow è quasi un’iperbole, mentre gli andamenti ottenuti a partire dai dati risultano raramente confrontabili, sia per forma della curva sia per pendenza. Senza contare il fattore di correlazione dei punti, che spesso è al di sotto del 30%, quindi sotto la soglia di definizione della cosiddetta “correlazione media”.
Tra l’altro si noti come in Gran Bretagna, paese da cui sono stati estrapolati i dati per far nascere la curva originaria, la curva di Phillips non sia affatto rispettata dal 1960 ad oggi.
Dov’è l’errore? L’errore sta nel fatto che in realtà la curva non ha due sole variabili ma appunto è ben più complessa. Per vedere un po’ meglio questa cosa possiamo appiccicare le date ai vari punti in modo da farci un’idea. Ecco che per esempio se si guardano i dati dell’Italia, si può scorgere il fatto che negli anni ’70 la curva di Phillips è praticamente una linea verticale, negli anni ’80 invece ha l’aspetto di una curva di Phillips tradizionale e dagli anni 2000 in poi è addirittura una linea orizzontale:

Figura 5 – Curva di Phillips reale italiana con indicizzazione per anno. Elaborazione grafica a partire da dati della Banca Mondiale [3].
Questo per dire che la curva di Phillips non ha validità generale e non l’ha mai avuta. Nella curva mancano vari fattori (cosa che abbassa fortemente l’indice di correlazione dei dati) ma quello che più influenza la curva è il potere contrattuale dei salari e la flessibilità del lavoro. Infatti negli anni 2000 la curva si schiaccia verso il basso perché da un punto di vista legale si introduce la flessibilità nel mondo del lavoro (per esempio con la Legge Biagi). Con il lavoro flessibile quello che succede è che la proporzionalità inversa tra disoccupazione e inflazione si perde nel nulla. A quel punto infatti è proprio l’applicazione pratica della teoria del NAIRU che ammazza la curva perché si adatta il tasso di disoccupazione al fine di mantenere bassa l’inflazione e quindi qualsiasi valore di disoccupazione va bene purché l’inflazione si avvicini allo zero. Ecco che la funzione di reazione di una Banca Centrale che si basa sulla curva di Phillips in realtà non fa altro che dimostrare che la curva di Phillips è un concetto monco, inesatto.
Non esiste una relazione univoca tra queste due variabili, è molto più complessa. Il fenomeno dell’inflazione dipende dalla scarsità di prodotti a fronte di una richiesta molto elevata e questo può dipendere da tantissime cose, compreso il tasso di disoccupazione. Tuttavia ci sono altre variabili che rimescolano le carte e questo è evidente dai dati, i quali demoliscono le fondamenta del modello a gap.
Attenzione, lo scopo dell’articolo non è trovare una relazione tra l’inflazione e dei parametri, né tantomeno individuare una funzione di reazione per una Banca Centrale; lo scopo dell’articolo è far capire che:
– Non è che perché qualcosa è stata detta da un premio Nobel allora è esente da errori.
– I dati dimostrano che non esiste un’iperbole che lega il tasso di inflazione e tasso di disoccupazione senza altri parametri di mezzo.
– Per quasi 30 anni la politica economica delle Banche Centrali è stata improntata su una funzione di reazione che parte da una curva che non ha validità generale, e di conseguenza le scelte economiche fatte in tal senso non possono funzionare in tutti i casi.
– Nonostante la relazione sia sfatata, viene ancor più sfatata l’idea di moneta neutrale perché comunque c’è un legame tra le due variabili, seppur sporcato da altre.
– La metodologia del NAIRU in realtà non è altro che un metodo di rallentamento programmato del progresso al fine di mantenere “valuable” la ricchezza detenuta dai ricchi, e come tale non può essere considerata valida.
BIBLIOGRAFIA E FONTI
[1] Yun Li (2019), The Fed chairman says the relationship between inflation and unemployment is gone, CNBC
[2] William Philips (1958), The relation between unemployment and the rate of change of the money wage rates in the United Kingdom, 1861-1957
[3] Fonte: Banca Mondiale, dati per nazione

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