I delicati equilibri lavorativi di oggi
I delicati equilibri lavorativi di oggi: le riflessioni di due ingegneri
di S.G. e G.F.
Foto in evidenza caricata da MD Duran su Unsplash.com, disponibile a questo link. Foto rilasciata con licenza CC0.
Discutevo l’altro giorno con un mio carissimo amico sul mondo del lavoro e in particolare sul mondo dell’industria. Entrambi non abbiamo potuto fare a meno di notare una caratteristica cruciale della “società gerarchica” delle imprese che operano nell’industria stessa.
Abbiamo notato che il giovane neolaureato matura da subito delle caratteristiche caratteriali legate al fatto che ha subito una sorta di stupro intellettuale durante il percorso accademico. L’università fornisce un discreto spettro di conoscenze tecniche, sufficienti a progettare un intero veicolo se ben canalizzate, ma il percorso è adornato da un ingiustificato prestigio che non trova riscontro con la realtà. Il neolaureato purtroppo viene risucchiato all’interno di questa spirale, sentendosi non solo gratificato dal 30 e lode ma persino “superiore” in virtù del fatto che ha fatto il compitino alla perfezione, ignorando completamente che, ammesso che sia il più bravo studente del corso, conosce soltanto l’1% di ciò che realmente c’è dietro quelle materie. Ma quando sei all’università non sei in grado di percepire il tuo grado di ignoranza. Non sei realmente in grado di percepire cosa è oggettivo e cosa è soggettivo perché basta che ci sia un po’ di matematica o in generale di scienza dietro certe tematiche per avvertire un senso di autorevolezza indiscutibile. Beh, l’università per come concepita oggi non lascia spazio al pensiero critico perché è troppo veloce. Per stare nei tempi nessuno si fa domande e dà per scontato che un risultato scientifico sia autorevole. Nel frattempo però, dal lato della sua mancanza di esperienza vede il superamento di un esame come un’impresa titanica, un passo in meno che lo separa dal tanto agognato punto di partenza del riscatto sociale. Sicuramente molti di voi avranno pensato che il momento della laurea sarebbe stato cruciale, una sorta di spartiacque. Molti di voi avranno pensato “ah finalmente posso mettermi in gioco e mostrare tutto il mio potenziale”. Dunque tipicamente un neolaureato ha subito voglia di fare bene perché nel bene o nel male ha un minimo di competenza nelle materie che ha studiato, ha passione per quello che fa (anche quando non è ciò che avresti voluto fare nella vita), ha tutto l’entusiasmo giovanile del caso, contornato a volte anche da una spiccata arroganza. Tutte queste caratteristiche sono motivate da un’irrazionale voglia di mettersi in mostra per le proprie capacità.
Poi però arriva la prova del nove, arriva il momento in cui bisogna entrare nel vero mondo del lavoro e queste caratteristiche si rivelano subito fallaci. Qui interviene la prima pecca dell’università, cioè il fatto che non ti prepara all’imprenditoria, quindi praticamente tutti gli studenti universitari finiscono per lavorare come dipendenti. In realtà non ti prepara neanche al mondo del lavoro ma almeno in quello una minima parte delle competenze tecniche necessarie te le dà. Si può dire che l’università ti insegna a saper leggere e affrontare tematiche tecniche. D’altronde se dovesse preparare a tutto ci vorrebbero dieci anni di percorso di studi, ma non vogliamo addentrarci troppo in questo discorso.
Tornando al neolaureato che ha appena trovato lavoro come dipendente, all’inizio la passione la fa da padrona, spingendolo a dare il massimo per mettersi in mostra e magari tentare la scalata all’interno dell’azienda nel miraggio di fare carriera (questo aspetto è tipicamente pompato dalle famiglie, che magari non provenendo da ceti dirigenziali non hanno la benché minima idea di cosa significhi nella pratica). Poi però arriva la realtà e arriva con la stessa violenza di uno schianto frontale. Le sopracitate doti tecniche diventano quasi completamente irrilevanti perché il 99% di quelle persone finisce a fare tabelline Excel, grafichetti su Matlab o disegnini su un CAD. E il giovane neolaureato, che nel frattempo ha maturato già qualche anno di esperienza, finisce per rendersi conto che non serve un ingegnere per occupare quella posizione è sufficiente una figura molto meno qualificata.
Diciamoci la verità: non si studia ingegneria per eseguire ordini, ma per creare e dare libero sfogo alla fantasia e alla voglia di migliorare ciò che c’è. In pratica, si studia da ingegneri perché si è creatori, non
perché si è esecutori. Anche perché la forma mentis dell’università è proprio quella, chi c’è stato lo sa o comunque si riconoscerà in queste parole. All’università vige il “non ti focalizzare sull’esecuzione del risultato, per quello ci sono i calcolatori. Focalizzati sul capire cosa stai facendo e cosa stai cercando”.
Ma l’università forma le competenze tecnico-culturali, di certo non forma né le cosidette soft skills né ti prepara a ricevere le grosse umiliazioni che riserva il mondo del lavoro. In un certo senso non è accettabile che quella che dovrebbe essere la fucina della classe dirigente formi invece per la maggior parte operai altamente specializzati dotati della cultura che dovrebbe avere la classe dirigente. Questo è. Oggi di fatto un ingegnere non è altro che un perito di 40 anni fa. Non che ci sia niente di male, sia chiaro, ma sprecare 5, 7, 10 anni della propria vita (non retribuiti) per poi partire esattamente dallo stesso punto non è affatto gratificante. E lo è ancor meno per chi ha scelto quella professione per stabilità, per soldi o in generale non perché è ciò che vorrebbe fare realmente nella vita. E queste persone sono almeno il 95% del totale.
Da tutto questo ne nasce un senso di frustrazione che è amplificato dal fatto che gli innumerevoli sforzi fatti per cercare di fare carriera sono del tutto inutili, visto che gli strumenti che si hanno in mano sono sbagliati. D’altronde cercare di sfondare un portone blindato a mani nude è mostruosamente più difficile che aprirlo con la chiave giusta. Solo che la chiave non sono le competenze tecniche e soprattutto la realtà dei fatti è che sia la società, che la famiglia, che l’università ti convincono del contrario. Vieni convinto del fatto che più sei bravo e più verrai notato per le tue qualità e quindi verrai portato avanti. Forse viene ereditato questo atteggiamento mentale a causa di quello che si vede in televisione: un calciatore più è bravo e più tendenzialmente fa carriera; un pilota più è bravo e più tendenzialmente fa carriera etc… ma tutti questi esempi sono fuorvianti perché quelle figure non fanno strada perché sono bravi, bensì perché le loro doti tecniche fanno fare soldi. E’ qui la sostanziale differenza. Non c’è possibilità per un neolaureato di emergere per le proprie doti tecniche. Infatti mentre la capacità di Cristiano Ronaldo di fare la differenza in mezzo agli altri fa segnare la squadra, la fa vincere e quindi fa fare soldi a tutto il macchinario che gli si muove attorno, un ingegnere non fa fare soldi all’azienda per le sue capacità. Un ingegnere contribuisce in un team immenso a portare dei risultati voluti dall’alto facendo delle attività a bassissimo rischio. Non pensate all’ingegnere come quello che progetta un ponte. Quelle persone sono meno dell’1%. Pensate all’ingegnere come all’impiegato aziendale che lavora per una multinazionale dell’industria. Ecco quelli sono il 90% e sono tutti frustrati. Sono frustrati perché il loro operato tecnico, cioè ciò su cui si sono allenati per anni con lo studio, non serve a fare la differenza e quindi non serve ad emergere. Quando il neolaureato scopre questo ha già maturato qualche anno di esperienza e il risultato è lo spegnimento dell’entusiasmo e l’atrofizzazione del talento. Il senso di delusione difronte a questa realtà è immenso. Questo avviene perché la domanda principe rimane la stessa: “come è possibile che ho studiato per anni per fare il capo ed avere responsabilità e mi ritrovo a fare praticamente l’operaio?”. Ripeto, c’è bisogno anche e soprattutto dell’operativo, ma di certo non serve una laurea per farlo e se uno spende anni per laurearsi per poi fare le stesse cose che avrebbe potuto fare senza vuol dire che qualcosa non va.
A quel punto ci sono due possibili strade: o ci si adagia su quella linea per tutta la vita, vivendo per sempre nella frustrazione, oppure si cerca di capire cosa fare per diventare un capo. Una persona una volta mi disse che le tue qualità (tecniche e non) contano solo per il 10%. Il restante 90% dipende dal tuo capo e dal trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Quindi il 90% del processo è incontrollabile e questo per un ingegnere corrisponde alla parola inaccettabile. Ci vogliono degli anni per capire cosa fare e la cosa ironica è che quando lo si è capito si capisce anche che è tutta un’immensa lotteria.
Può capitare ad esempio, in modo del tutto casuale, che si aprano delle posizioni internamente all’azienda e che si abbia la possibilità di scalare, pur rimanendo sempre a livelli pseudo-operativi. Di certo l’azienda non ha intenzione di promuovere una persona che fa bene il suo lavoro visto che poi deve
porsi il problema di trovarne uno altrettanto bravo per rimpiazzarlo. Ma qualora un tecnico dovesse diventare team leader inizia a vedere le cose da un punto di vista diverso. Innanzitutto si trova improvvisamente a dover gestire un gruppo di persone invece di fare l’operativo. Per essere in grado di fare questo non serve alcuna preparazione tecnica, ma servono soltanto le cosiddette soft skills. Poi si trova a dover gestire tutte le caratteristiche di cui si parlava all’inizio che sono presenti nelle persone del suo team, e anche qua non si può dire che l’università ti formi per questo.
Ma come può qualcuno passare dal primo stadio al secondo? E è proprio su questa domanda su cui si fondava la nostra discussione, visto che entrambi siamo rimasti fermi al primo stadio nonostante avessimo entrambi le capacità necessarie per passare al secondo, al terzo, al quarto e via dicendo.
Le imprese sono società gerarchiche, nel bene e nel male. Nelle società gerarchiche, osservando la piramide di comando non si può non notare una palese differenza del rapporto fra passione ed equilibrio. La più alta posizione della gerarchia, avendo come scopo quello di controllare un sistema complesso e caotico, garantendo la stabilità ricercata dai mercati e dagli investitori, tenterà di rendere tale sistema stabile e prevedibile, ricercando l’equilibrio. L’equilibrio da prevedibilità e la prevedibilità conferisce potere, aumentando le probabilità che le proprie scelte siano corrette o per lo meno giustificabili a ritroso in caso di fallimento.
Nella zona più bassa della catena di comando, quella degli operativi e dei neolaureati, si notano le caratteristiche che abbiamo individuato prima, che sono diametralmente opposte. Notoriamente queste posizioni sono occupate dai giovani di cui sopra, con poca esperienza e che hanno purtroppo l’unico scopo all’interno dell’azienda di svolgere indefessi dei compiti a basso rischio (l’esempio delle tabelline Excel di prima). Per la nostra esperienza possiamo dire che a muovere il giovane sono la passione e la fiducia nell’utilità del proprio lavoro. Tutte doti che sono palesemente sfruttate dal manager per creare la motivazione senza alcuno sforzo. Ma la passione ha una faccia della medaglia che non viene accettata dai superiori: il rischio. Avere passione significa prendersi dei rischi, evidenziare criticità, prendersi responsabilità (a volte anche senza compenso dietro) per puro senso del dovere nei confronti della professione che si ama. La passione per certi versi è imprevedibilità, incontrollabilità. Ma un manager “tollera” la passione dei membri del suo team per due motivi:
1) Le imprese sono in competizione e in qualche modo questa caratteristica spreme idee dai giovani, alzando il livello dell’azienda quanto basta per restare al tavolo dei grandi, senza eccellere ma anche senza affondare, contribuendo al mantenimento dell’oligopolio, in ogni settore. Ovviamente poi l’azienda si prende i benefici economici e al dipendente, se va bene, resta la gloria di avere un brevetto a proprio nome.
2) La passione è l’unica ragione che potrebbe spingere una mente pensante a sacrificarsi per qualcun altro senza ricavarne benefici personali… come si suol dire “per la gloria”.
Ma quindi, escluse le dinamiche relazionali (che ancora una volta rientrano nelle soft skills), di cosa ha bisogno un individuo per essere “adatto a gestire altre persone”?
La risposta non è semplice ed ha molteplici sfaccettature. Magari un’analisi più approfondita potremo farla in un altro articolo, ma quello che vogliamo fare qui è evidenziare un aspetto cruciale di chi ricopre posizioni manageriali: la ricerca dell’equilibrio a discapito della passione. Nelle aziende attuali, almeno in Italia, non viene visto bene chi identifica problemi e men che meno viene visto bene chi antepone se stesso al team. In poche parole il mettersi in mostra è malvisto se il tentativo in sé non ha finalità esclusivamente “collettive”. E anche in quel caso bisogna stare attenti perché i delicati equilibri delle cordate aziendali suggeriscono che nessuno vuole avere responsabilità, nemmeno quelli che sono pagati per averle. E’ così che si finisce per cercare di evitare di sollevare problemi, anche quando la risoluzione
degli stessi apporterebbe benefici all’azienda. E questo accade perché sollevare un problema significa attribuire responsabilità e colpe, stabilire tempistiche, scomodare persone, realizzare flussi comunicativi (spesso complessi soprattutto per via delle distanze) e quant’altro. La maggior parte delle volte si preferisce evitare perché questo turba i delicati equilibri. E se qualcuno tira fuori problemi per cercare di risolverli, anche in nome della passione che quella persona può avere per il risultato finale del proprio lavoro, nessuno ti premierà. Anzi. Si possono verificare anche dinamiche complesse che mirano ad ostacolare e insabbiare questo tipo di presa di posizione. Non assecondare questo flusso è il primo modo per bruciarsi all’interno di un’azienda. In definitiva, il personalismo e la ricerca della natura dei problemi non sono qualità apprezzate dal management.
Sembra un impossibile contraddizione eppure è vero. Quanti di voi sono stati penalizzati in azienda per aver sollevato un problema? Quanti di voi sono stati penalizzati per aver alterato “lo stato di equilibrio delle cose”? Quanti di voi sono stati penalizzati per aver preso dei rischi per arrivare al risultato (anche se poi ha premiato)? Quanti di voi sono stati penalizzati per non aver accettato l’ipocrisia di fondo del sistema? Allo stesso modo, quanti di voi hanno visto colleghi apparentemente meno meritevoli prendere un posto a cui ambivate da anni e a cui lavoravate da anni in azienda? Quante volte avete visto regole bypassate al momento giusto solo per mettere qualcun altro in un posto cardine? Quante volte avete visto persone succubi dell’ipocrisia aziendale fare carriera? Molti di voi avranno visto questi scenari varie volte, e in tutte le occasioni avranno provato sensazioni di sconfitta immotivate, alle quali l’università non ti prepara.
Un capo appassionato non funziona. Un capo che in nome della sua professionalità e dell’amore per quello che fa si fa carico di responsabilità sollevate da altri per apportare un beneficio all’azienda sarebbe il massimo della vita, ma è assai raro. Magari esistono realtà più semplici in cui questo può accadere ma nell’industria italiana questo non accade quasi mai. Questo è vero perché su tutti i livelli al di sopra di quello operativo non si ama il proprio lavoro ma si ama il potere e i soldi che derivano dalla propria posizione. E si cerca di salire sempre più per amore di ciò, di certo non per la passione per il proprio prodotto. Ma d’altronde qualcosa che si fonda sulle regole del mercato non può che avere le sue dinamiche, ovvero profitto, profitto, profitto e… avete capito.
Alla lunga questo distrugge le persone che si hanno sotto, congiuntamente allo stipendio che tipicamente è ai limiti del decoro professionale. Ma tanto il problema non si pone perché nel breve termine viene risolto facendo job rotation (cioè cambiando mansione al dipendente ma in modo orizzontale, senza crescita verticale) e nel lungo termine viene risolto inducendo il lavoratore a cercarsi un altro posto in un’altra azienda. E il ciclo ricomincia finché non si è verificata una delle due situazioni di prima, cioè o il lavoratore si adagia su uno stile di vita che lo condannerà all’eterna infelicità lavorativa oppure finisce in una posizione di controllo.
La cosa singolare è che anche in condizione di cambio di azienda non è correlato al potenziale aumento di stipendio. Come regola non scritta, un’azienda che vuole offrire una persona non offre mai più del 25% in più dell’attuale stipendio lordo del lavoratore. Questo significa che per esempio se il primo stipendio è di 24.000€ lordi annui (cioè circa 1250€ netti al mese su 14 mensilità), cambiando azienda lo stipendio non sarà mai superiore ai 30.000€ lordi/annui (cioè circa 1500€ netti al mese su 14 mensilità). Come sappiamo tutti in alcune città con quegli stipendi non ci vivi e per arrivare a stipendi decorosi o quanto meno da stile di vita della classe media anni ’80 ci vogliono vari passaggi. Le aziende allo stesso tempo non vedono di buon occhio una persona che cambia lavoro spesso e quindi tendono a non assumere persone che fanno troppi passaggi. Unendo questo al fatto che superati i 40 anni è difficile cambiare azienda, si ha una sorta di guerra liberomercatista in cui il lavoratore diventa (e si sente) una merce il cui valore non è regolato dalle sue capacità ma dal mercato. Tra l’altro per molti tipi di profili lavorativi se si resta troppo tempo nella stessa azienda, l’azienda stessa non ha alcun motivo per darti più soldi. Salvo rare eccezioni, il lavoratore ottiene un incremento di stipendio solamente nel momento in cui decide di andarsene e quindi l’azienda fa una controproposta pari (teoricamente) almeno alla proposta dell’altra azienda, per evitare che il lavoratore scappi via. Questo non avviene sempre, perciò non pensate che sia una leva.
Tra l’altro questo meccanismo, quando lo si capisce, tende a contribuire alla disaffezione del dipendente nei confronti sia dell’azienda che del mondo del lavoro. Ci si sente una puttana high-skilled, non un professionista. Si percepisce il fatto che l’azienda non sta pagando le capacità di qualcuno, bensì sta pagando il tempo di una persona per occupare una posizione. E anche se il mercato non è strutturalmente concepito per comprendere questa dinamica, il tempo delle persone non ha lo stesso valore per tutti. Di fatto in questo contesto emerge la natura più cruda del mondo del lavoro moderno, in cui alcune persone sono felici di sguazzarci dentro ma la maggior parte soffre di un malessere interiore che in alcuni casi impiega anni per essere sopito, mentre in altri casi perdura fino a tristi epiloghi. Ma questo non “è il capitalismo, baby” ma è una versione distorta dello stesso che perpetrandosi nel tempo ha finito per entrare nella visione comune come se fosse la norma. E in questo, se non l’avete già, troverete un’ipocrisia senza limiti su social come Linkedin, in cui si leggono dei post che davvero non possono venire da una persona raziocinante e che, in certi aspetti, legittimano questo operato.
In tutto questo il neolaureato che legge deve sapere a cosa sta andando incontro quando finisce nell’industria. Si tolga dalla testa tutte le belle diciture del tipo “verrà inserito in un contesto dinamico” perché quel “dinamico” non è affatto quello che pensa. Lo so perché ci siamo passati tutti, nella nostra testa in quel momento della vita risuona tutto come un immenso “che figata” ma la realtà dei fatti è che è un mondo fatto di caste (in cui noi occupiamo sempre la più bassa), fatto di ordini gerarchici, fatto di burocrazia infinita, fatto di procedure e processi aziendali, fatto di lotta continua (soprattutto agli inizi) per una remunerazione adeguata, fatto di relazioni e non di capacità, fatto di avanzamenti di carriera lentissimi, fatto di sottomissioni e reverenze, fatto di un delicato equilibrio che viene turbato dalle persone che pensano. E’ per questo che tutti noi dovremmo iniziare a pensare invece di adagiarsi a queste dinamiche.

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